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JUVENILIA 


L'opera raccoglie anche le Rime di San Miniato oltre alle poesie composte tra il 1850 e il 1861 e consta in tutto di cento poesie (esclusa la Licenza) articolantisi in sei libri. Il Titolo deriva dal verso 339 tratto dal II libro dei Tristia di Ovidio: "Ad leve rursus opus iuvenilia carmina, veni". Con quest'opera il Carducci comincia la sua milizia come scudiero dei classici a dire il vero l'opera vive spesso di reminiscenze e loci litterari classici e desunti dai neoclassici. L'apparato tematico si snoda a partire da un I libro, costituito da sonetti in cui la nota melica predomina costituita dai sentimenti e affetti più reconditi e dall'amore e dalla nostalgia, il II intessuto di mitologia che si riverbera anche nel IV, il III ha una sfumatura civile e da spazio alle figure esenplari dell'Italia, nel V dispute di carattere letterario, nell'ultimo la tematica politica predomina tra polemica e amore verso la patria eletta. L'amore appare caratterizzato da molteplici echi da quelli stilnovistici a le rimembranze leopardiane (come il sonetto X del primo libro) e trova posto anche l'amato Orazio, presenza costante nell'opera del leone maremmano e riferimenti al Foscolo e all'Alfieri.  È viva la polemica contro il romanticismo ed il vino è opposto alla scellerata astemica romantica famiglia e di conseguenza la satira non risparmia i suoi avversari romantici o pedanti che siano, esempio ne sono Alla Musa odiernissimaAi poetiPietro Fanfani e le postilleA Bambolone e Messerino. L'anticlericalismo che è presente nel Al Beato Giovanni della pace, in cui ritornano improvvisamente di moda le reliquie, ma a suo parere il potere temporale è uno dei responsabili anche della ritardata unità (Modena e BolognaPer le stragi di Perugia). Il tema politico investe in pieno l'ultimo libro della raccolta e si divide tra l'esaltazione della figure che hanno permesso l'unità Vittorio Emanuele II e Garibaldi, rispettivamente in: A Vittorio Emanuele eSicilia e rivoluzione, e gli episodi eroici che portarono alla stessa unità ricordati in liriche quali Montebello, Palestro, Magenta.

 

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LEVIA GRAVIA


La denuncia di una mediocrità sinonimo, non di rado, di grettezza sul piano socialepolitico morale, trova molto spazio in Levia gravia, raccolta che, nella sua edizione definitiva del 1891, consta di due libri, di cui il primo esprime sfumature intimistiche ed a tratti occasionali e il secondo politico-sociali, articolantisi in ventinove componimenti preceduti da un Congedo. Esso esprime il ritorno della poesia in un mondo ferino, doloroso, sempre in guerra, per questo essa si erge a denuncia dei vizi, delle distruzioni e delle numerose prostrazioni. Nei versi di In un albo, l'immagine virgiliana della sensuale donna sotto il diafano raggio lunare si sposa con quella, sempre presente nel mantovano, del pellegrino che cammina lasciandosi alle spalle "il principio del lontan viaggio" e del "luogo natio" e quel "odi e amor" richiama e riecheggia il celeberrimo distico del carme ottantacinque di Catullo, né ci si può dimenticare degli accenti irosi e ribelli. Questa nostalgia ritorna poi in Per val d'Arno, in cui c'è la naturalistica rievocazione tutta fronde e scrosci della valle e la celebrazione di quel luogo come depositario delle memorie più care e perfino della salma del fratello Dante. Nella canzone In morte di Pietro Thouar, si delinea l'irreprensibilità del personaggio che come diamante appena estratto brilla tra le pietre di risulta così "questo savio gentile, […] che mite diffondea sua vita umile" si stagliava per la sua integrità morale sui corrotti figuri. Nel sonetto a F. Petrarca è colto, fuor d'ogni schematismo arcadico, il sentimento di solitudine del poeta trecentesco, quell'abbandono all'accidia dolce e malinconica da cui è tentato anche il moderno, che vi sovrappone il proprio paysage de l'âme. Quasi in conclusione del libro si colloca la canzone di rievocazione storica Poeti di parte bianca, che si svolge sullo sfondo della corte di F. Malaspina e più precisamente al castello di Mulazzo in Lunigiana. Ad animare la canzone sono due fuoriusciti (i fiorentini Senuccio Del Bene, poeta e Gualfredo Ubaldini, un cavaliere ghibellino) che dopo aver entrambi espresso il rammarico per il "romitaggio" e la nostalgia della natia Firenze, su invito degli ospiti si prestano a cantare, in forma di ballata stilnovistica, l'amore che solleva l'uomo dalla prostrazione moralema che è anche illusorio perché spesso, ed è il caso della ballata di Senuccio, vola via portando con se il piacere e l'arte. All'interno si ravvisano inoltre, temi quali, il richiamo delle proprie origini (l'astore attirato verso le cime appuane) e la grandezza del passato nei confronti di un vacuo presente, che si completano e sviluppano nel poeta maturo. Nel secondo libro, esplode il risentimento e la protesta politica. Essa si manifesta sia su avvenimenti della nostra Italia sia su situazioni correlate e collegate ideologicamente, ma di altre nazioni. In Dopo Aspromonte si celebra il valore di Garibaldi invitto, piegato e messo in "ceppi" solo da Rattazzi, lui che solo si era levato contro l'Europa conservatrice e si guarda verso una nuova era con un liberatorio brindisi (vv. 61-68): La sua denuncia colpisce anche Napoleone III che ha privato della vita, "Imperial caino", la Repubblica francese e quella romana. Il Carducci apre una finestra sul panorama politico internazionale nel sonetto Per la spedizione del Messico e nell'ode Per la rivoluzione di Grecia. Nel sonetto si mette in evidenza una combutta europea che sotto l'illuminato atto di civilizzazione nasconde in realtà una "fucina di servaggio" animata dalla Francia "ancella di ogni reo potere", dalla "Spagna feroce" e dall'"Anglia mercantesca". E sempre con l'intento di smascherare i continui e nuovi oppressori di popoli che siano essi lo Zar, gli Asburgo, i Turchi, si muove nell'ode. In essa si esalta la libertà che finalmente ritorna e si liba ad Eleuteria sottolineando l'abbattimento di un potere imposto dall'estero (il re Ottone di Baviera) e deplorando un nuovo tentativo, per fortuna andato a vuoto, di asservimento e di oppressione di marca straniera, impersonato da Guglielmo di Danimarca. Nuova risulta la soluzione di Carnevale, non tanto per la separazione netta tra le voci dei palazzi e quelle dei tuguri, quanto per la denuncia sociale, di ascendenza pariniana, delle "larve - ricchi" che ruttano in faccia al popolo povero, la "mal digerita orgia" e le loro "pompe", popolo che un giorno assalterà affamato il palazzo (vv. 159-160). Già in questo orizzonte poetico, si avverte un quid di ironico, di satirico, una spinta alla denuncia e alla protesta. 

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GIAMBI ED EPODI


L'opera è composta da due libri formati il primo, da quindici, il secondo da quattordici componimenti, il tutto è preceduto da un Congedo e fu pubblicata nel 1868. L'orizzonte tematico vede prevalere nel primo libro tematiche più intimistiche nel secondo vengono alla luce spunti politici e sociali. Il clima in cui nasce quest'opera è particolare, ormai l'Unità d'Italia è stata realizzata, ma si tratta di una riunificazione monca di Roma e Venezia e questo non ha fatto che deludere e infangare gli ideali del Risorgimento che avevano mosso verso l'indipendenza dallo straniero. Altri episodo come l'inibizione di Garibaldi sull'Aspromonte e le sconfitte di Custoza e Lissa non facevano che esacerbare l'insoddisfazione e la critica verso una classe politica che costruiva poco le sue vittorie sul campo di battaglia rispetto a successi ottenuti con sotterfugi e accordi. Il Congedo esprime la valenza dissimulatrice della poesia che ritorna in un mondo dominato dalla violenza e dalla guerra per denunziarne i mali e i vizi. I ricordi più cari spesso si stagliano nella campagna collinare dell'amata Maremma come avviene nello struggente ricordo del morto fratello Dante in Per val d'Arno. Ma egli sa anche celebrare figure integerrime che in questa società dalla nera moralità risaltano per il candore dell'animo e per la nobiltà dei comportamenti come in A Pietro Thouar, commosso ricordo di un amico che lo aveva aiutato nei primi anni bolognesi, figura umile ma valente studioso e letterato che non si fregiava di titoli per esprimere la propria eminenza ma di generosità. La critica già rivolta nei confronti del potere temporale in Agli amici della val Tiberina, si rinnovella nell'ode a Edoardo Corazzini, in cui il ricordo del giovane amico ferito a Mentana gli da l'occasione di allargare lo sguardo alla Francia che pure aveva sparso ai quattro venti i dogmi della rivoluzione (libertà, fratellanza, uguaglianza) che guidata dal "cesare sinistro" Napoleone III, era diventata "masnadiera papale". Nel frattempo il successor di Pietro "smentisce Iddio" e "Di sangue, mira, il tuo calice fuma; / E non è quello di Cristo". In conclusione l'anatema e la scomunica (vv. 166-172): "Te […] io scomunico, o prete Te pontefice fosco del mistero vate di lutti e d'ire io sacerdote de l'augusto vero, vate dell'avvenire". Essa si corrobora ancor più esacerbata nell'ode Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, l'uno muratore l'altro operaio, che si erano prodigati, avvicinandosi a Roma i garibaldini, a far saltare la caserma Serritori, per provocare una rivolta popolare. Ebbene la vicenda non andò per il verso giusto e i due catturati, furono giustiziati e il loro carnefice fu proprio Pio IX. In un plumbeo giorno di novembre il pontefice è radioso, quasi si celebri una festa e si frega le mani prima dell'esecuzione. Poi il rimprovero si estende a tutte le latitudini partendo dall'Europa che ha permesso questa insania e l'ode ha una conclusione consolatoria : "Savi, guerrier, poeti ed operai, / Tutti ci diam la mano: / Duro lavor ne gli anni, e lieve ormai / Minammo il Vaticano". Non si salvano in questa "Sodoma" nemmeno i politici, essi in Heu pudor!, sono designati come "gregge indegno" e l'Italia appare in mano a Fucci e Bonturi e senza rispetto per coloro che si sono sacrificati per "fare l'Italia", "Ora barattan sulla vostra fossa". Anche una cerimonia toccante come quella dello "Sposalizio del mare", nell'ode Le nozze del mare, viene corrosa "ora" da un aura di decadenza cosi avviene che: "Dopo il dramma lacrimevole /La commedia oggi si dà". Infatti non c'è più il Doge sulla poppa de "l'antico bucentauro" a gettare nelle fredde acque l'anello simbolo di un legame vicendevole che unisce la città e il mare, ma una donna : "De i grandi avi i padiglioni / Son velari, onde una femmina / Il mar d'Adria impalmerà". Egli non può nemmeno giustificare il cieco e anacronistico gesto del neonato governo di istituire una consulta araldica per valutare onoreficenze, stemmi, titoli e quant'altro vecchio nobilume impolverato, per questo un moto di sdegno e di condanna si alza in La consulta araldica in cui c'è il tentativo di risuscitare un mondo di "larve". In Avanti! Avanti!, il titolo è un'incitazione al "sauro destrier de la canzone!", che non è altro se non il moto creativo del poeta, a slanciarsi nella corsa attraverso la gloria, la bellezza, la libertà non illanguidendosi e spossandosi o coprendosi di fiori come la seconda generazione romantica e quindi autoincitazione a continuare la stagione poetica giambica. La corruzione morale emerge anche in A certi censori, in cui sullo sfondo si muovono personaggi a dir poco grotteschi con nomi presi dalla tradizione della satira antica: Mena, Pomponio. Ma la poesia emerge con la sua katàrsis: "E con la spada alto volando prostra I mostri e i giganti, / E con le trombe e la suprema giostra / Chiama i guerrier festanti." La farsa e la caricatura si fanno goliardata in Io Triumphe!, dove i conquistatori che giungono un anno dopo che Napoleone III ha tolto le tende, sono accolti dalle glorie del passato (Furio Camillo, Caio Duilio, Lucio Virginio, Tullio Cicerone, Cornelio Tacito, Marco Giunio, Bruto, Marcaurelio) che di fronte a tanto "sfolgorar" di animi e ingegni si fanno da parte lasciando ai moderni campo libero. L'abbattimento delle stesse smancerie delle favorite, la sfarzosità del re alla corte di Versailles e dell'ancien regime e dei ciechi dogmatismi ad esso collegati sono orgomento di Versagia (vv. 49-52): "E il giorno venne: e ignoti, in un desio /Di veritade, con opposta fé, /Decapitarono, Emmanuel Kant, Iddio, / Massimiliano Robespierre il re." L'immagine iniziale di un'Italia che, con passo felpato, si insedia sul Campidoglio, zittendo le proverbiali oche, campeggia in Canto dell'Italia che va in Campidoglio, dal momento che il loro starnazzare potrebbe insospettire il cardinale Giacomo Antonelli segretario di Stato di Pio IX. La prudenza, perseguita da Giovanni Lanza, in questo caso non è giustificata e appare anzi segno di viltà, tanto più che Napoleone III è ormai lontano da un po'. Queste oche offrono il destro per una critica alla scuola dei "poeti odiernissimi" . Si staglia poi l'immagine di un'Italia per secoli asservita, che passava con disinvoltura di dominazione in dominazione che si sente quasi in colpa per aver "preso" Roma ed è pronta a far penitenza. Nel 1871 la Francia corse un grave pericolo infatti il ritorno alla monarchia, abbattuta dalla Rivoluzione, era dato quasi per certo e l'investito da questo onore e onere era Carlo Ferdinando d'Artois conte di Chambord, col nome di Enrico V. Incarnano questi timori, i distici de La sacra di Enrico Quinto, in cui in un paesaggio a dir poco "sofferente" e "malato" , si svolge lo stuolo regale che si reca a Saint Denis per l'incoronazione, e una tregenda di fantasmi e ossa balla una dance macabre. Anche un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1878 e più precisamente, uno scandalo familiare, entra in questa galleria dissoluta. È il caso di A proposito del processo Fadda, scritto in memoria della morte, per altro miserevole, del capitano G. Fadda, che aveva valorosamente combattuto nel 1859, ma che non mori sul campo ma per mano di un cavallerizzo di circo, amante di sua moglie. C'è il parallelismo tra le corrotte "nipoti di Camilla", le matrone romane assetate di sangue e le discendenti tanto dissolute da darsi all'adulterio quanto false nella loro pudicizia di facciata . Questa protesta, questa ironia, corrosiva e irriverente, dopo essere esplosa travolgendo tutto ciò che trovava ora si placava in Canto d'amore, che chiude l'opera. Al di là dei toni iniziali in cui l'arrogante progetto della rocca paolina, finisce sgretolato sotto l'avanzare del popolo umbro, c'è uno spirito di riconciliazione finale. 

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ODI BARBARE


Dal punto di vista artistico, è giunto per lui il momento di tentare una nuova strada, di lasciare quella rima strenuamente difesa poco prima per incamminarsi sulla "strada barbara". Infatti la nuova raccolta poetica Odi barbare (il titolo si avvicina sensibilmente ai raffinati e paganeggianti Poèmes barbares di Leconte de Lisle) la cui edizione definitiva uscì nel 1893 e consisteva in due libri di venticinque componimenti ciascuno, presenta una novità che è essenzialmente ritmica ed essa è data dal voler riprodurre nella lingua italiana, la metrica classica. Egli aveva in realtà avuto dei predecessori in queste sperimentazioni. Già infatti a partire dal Certame Coronario del 1441 e per tutto il cinquecento si tentò questa traslazione dei ritmi classici in lingua italiana con alterne fortune fino ad arrivare ai tentativi di Tolomei, Chiabrera e Fantoni e a quelli dei tedeschi Klopstock e Ramler. Questi ultimi si avvicinarono di più alla soluzione del problema, ma il Carducci volle seguire la strada battuta dai connazionali, riproducendo i versi latini con le sillabe, gli accenti, le pause avvertiti dall'orecchio italiano e lasciando da parte le quantità. Così si spiega anche quell'aggettivo "barbare" che indica la reazione che avrebbero avuto i greci e i latini (e non solo) leggendole e considerandole straniere: Queste odi […] le intitolai barbare perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani sebbene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani". Il loro universo tematico, fatto di affetti civili e patriottici, di aneliti storici, di toni intimistici (amore e morte), non è certo molto diverso dalle coeve Rime nuove. Ormai certi atteggiamenti spirituali che già si mostravano in queste ultime, si consolidano col tempo e diventano un bagaglio sentimentale che riaffiora zampillando vigorosamente e nutrendo l'ispirazione del maremmano. Il primo albore dell'Urbe, nell'Annuale della fondazione di Roma in cui è prevalente l'afflato civile, appare correlato al risveglio, sottolineato da quel "salve" anaforico, della Roma odierna, che si era redenta dalla servitù e dal cattolicesimo, capitale del Regno, ma anche capitale ideologica del mondo :"[…] tutto che al mondo è civile,/ Grande, augusto, egli è romano ancora". Quindi si affaccia il concetto cardine dell'ode, la inscindibile unità dell'Italia e di Roma. Questo connubio che sarà foriero di trionfi e glorie liberandosi da "l'età nera", da "l'età barbara" e da "i mostri" è sancito persino dal segno favorevole del fulmine a ciel sereno. Anche in Dinanzi alle terme di Caracalla, mossa da sdegno patriottico, in un atmosfera piranesiana, egli si scaglia contro gli speculatori edilizi, i precursori dei "palazzinari", che egli chiama "ciociari", che affastellano costruzioni minacciando di vituperare le grandi e degne vestigia di un passato più lontano moralmente che storicamente. La visita al un Museo civico di Brescia, tra il 7 e l'8 ottobre 1876, dove era conservata una statua bronzea del I sec. d.C., raffigurante la Vittoria, rinvenuta nella stessa città nel 1826, presso le rovine del Capitolium di Vespasiano, offre l'occasione che viene subito colta, dalla "sacerdotessa" Lidia, di libare alla Vittoria, che ritorna dopo secoli e in una città che ne è ben degna. E quell'aurea aetas, sempre riecheggiante, ritorna in Alle fonti del Clitumno vestita dei panni del nobile fiume umbro che gli illustri scrittori latini Virgilio, Properzio, Plinio hanno cantato. Alle sue acque scendevano giovenchi, e le pecore guidate dai fanciulli, lui prezioso e selvaggio. Ormai egli con l'Umbria verde saluta il dio Clitumno a cui si addicono non gli umili e molli salici piangenti, ma gli antichi e possenti alberi italici, frassini, lecci, cipressi, che serbano il ricordo del succedersi delle signorie degli Umbri, degli Etruschi e dei Romani, la riscossa e la vittoria italica contro Annibale a Spoleto. Ma quel tempo è volato via lasciando solo il silenzio, sono fuggite le ninfe, che cantavano le nozze di Giano e Camesena, da cui ebbe origine la stirpe italica, né ha più culto il nume Clitumno, ora che il cristianesimo soverchia l'antica civiltà fervida di vita e rende vile l'animo umano. Rinnovando all'Italia il saluto virgiliano, il poeta la invita a risorgere nella chiarezza, nella libertà e nel progresso dei tempi nuovi. Paesaggio e mito, natura e storia, passato e presente, poesia ed eloquenza coesistono. La nemesi storica è viva in Per la morte di Napoleone Eugenio e in Miramar. Nella prima, fatali frangenti legati alle malefatte avite, portano alla morte di Francesco Napoleone che si spegne alla corte austriaca e di Eugenio Napoleone che muore in Africa trafitto da una "zagaglia barbara" il tutto si chiude con una visione di antica tragedia: Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone, "domestica ombra" che "abita la vuota casa" tende le braccia verso il mare invocando che qualcuno della sua tragica prole le venga restituito. L'altra contiene lo sventurato destino dei consorti Massimiliano d'Asburgo e Carlotta del Belgio. Lui inviato nel regno del Messico voluto dal nonno, cade preda di indigeni rivoltosi a questa triste notizia lei impazzisce di dolore. L'esito appare similare a quello che vede protagonisti due personaggi del mito, quali Protesilao e Laodamia che conferiscono un'aura di nobiltà alla fine sciagurata dei consorti. Le dolci corde dell'amore, un'amore però contrastato, animano Sirmione. Essa gemma delle penisole sembra caduta dal cielo nella coppa del Benaco. Qui Catullo cercò quiete mentre a Roma l'infedele Lesbia "spossava i fianchi dei discendenti di Romolo" e la ninfa del lago cantava invitandolo e promettendogli pace nell'abisso. Il poeta lo ricorda a Lalage, e maledice Amore, nemico delle Muse. Ma come resistere agli occhi di Lalage? Colga ella tre rami di lauro e di mirto e li agiti al sole, conciliando le Muse e l'Amore e in omaggio ai grandi poeti che il luogo ricorda. Intessuta di suggestioni hölderiniane, Nevicata, con il ritmo lento della neve che fiocca nel cielo plumbeo e che sembra cancellare con tutti i rumori anche ogni segno di vita, con gli uccelli sperduti che picchiano alle finestre appannate e le ombre dei cari defunti che il poeta, chetando il suo indomito cuore, riabbraccerà, contiene il presentimento di una vita che declina e si dissolve nella morte. Pensieri questi, che al di là delle frequentazioni dell'Hölderin, sono suggerite anche dalla viva esperienza autobiografica che vedeva in questo periodo (1881) la lenta agonia di Lina. 

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RIME NUOVE


La raccolta Rime nuove, in nove libri, che raccoglie i componimenti scritti tra il 1861 e il 1887, testimonia una svolta, non cessa l'impegno civile, ma esso si spoglia dei panni satirici, ironici, di protesta che caratterizzavano Giambi ed epodi, e accanto a questo emerge una marcata vena elegiaca che percorre in lungo e in largo tutto il libro. Le radici di questo mutamento sono ravvisabili probabilmente, in un avvenimento biografico. Infatti nel 1871 conosceva e si innamorava dell'allora ventiseienne Carolina Cristofori. L'idillio amoroso durò un decennio, fino a quel fatidico 25 febbraio del 1881 quando la povera Lina moriva a soli trentasei anni, di tubercolosi. La musa lo ispirò e gli aprì il cuore e le sue poesie assunsero tonalità più soavi e delicate. Lo stimolo alla lettura di autori stranieri, che ella donna di grande cultura (conosceva infatti il francese, il tedesco e l'inglese) e sensibilità artistico-poetica gli infuse, contribuì a scuotere un po' di quell'accademismo libresco in cui era caduto e ad una modernizzazione della sua poesia. Si tratta in effetti di un opera multiforme non solo per le tematiche ma anche per i metri, anche se per un discepolo di Orazio questo poteva essere piuttosto normale. Il primo e l'ultimo libro contengono un componimento ciascuno, rispettivamente Alla Rima e Congedo. Nel primo si fa un po' la storia della rima con intento apologetico, intendendo rispondere all'articolo di Domenico Gnoli, uscito nel numero di dicembre del 1876 sulla "Nuova antologia", che la screditava. Essa si spinge tra moti dell'animo e "volgimenti di danza" tra "piè de' mietitori" e "virtù de' vincenti". Una rima epica quella delle Chansons des gestes si trasforma in poesia trovadorica e d'amore. Ed essa camaleonticamente muta, piegandosi alle lusinghe di Dante e trionfa pur combattuta e riverita tra i moderni. Nel Congedo il poeta traccia la sua figura e la sua arte partendo da ciò che egli non vuol essere, un poeta parassita e cortigiano, un perdigiorno sognatore romantico o un verseggiatore utilitaristico, e giungendo all'icona del poeta artiere tutto muscoli, che piega alle regola del metro e della rima anche i sentimenti più alti e che forgia con il battere e ribattere sull'incudine una poesia vigorosa e sana ma anche varia che canta, le glorie, le memorie, la libertà, la convivialità, la vittoria. L'ispirazione, il furor poetico che ha in se un qualcosa di misterioso e divino, viene lavorato a prezzo di grande fatica ma con la gioia di contemplare l'altezza del proprio genio. Il resto della raccolta vede prevalere, nel secondo libro, tematiche intimistiche e personali oltre all'elogio dei grandi spiriti dell'arte e dell'azione. Una dimensione metapoetica domina la prima parte del secondo libro ed egli vuole pagare il suo tributo poetico ai grandi maestri quali OmeroVirgilioDanteAriosto. Ad Omero dedica tre sonetti, in cui c'è un'iniziale atmosfera cupa (I), infatti il monte degli dei, l'Olimpo, è divenuto un ossario greco-ottomano, lo Scamandro è stato empiamente deviato dal suo corso, ma se pur ci saranno nuove invasioni (II), si leva una certezza, la poesia di Omero attraverserà i secoli divenendo immortale come: "Ercole dalle pire d'Eta fumanti al seno d'Ebe". Ma lo iato tra "le grotte di Calipso bionda", Circe seduttrice, la splendida Nausicaa e il presente (III), egli lo preannuncia già in quei "giudici cumei" che allontanarono Omero, ma esplode nei versi finali con l'amara considerazione che (vv. 12-14):"E se tu ritornassi al nostro mondo, / Novo Glauco per te non troverei: / Niun ti darebbe un soldo, o vagabondo". Nel sonetto X, dedicato a Virgilio, la luna dal bianco chiarore che illumina il "rio", immagine sempre cara al "divin poeta", fa da preludio alla melodia dell'usignolo e al "viatore" che pensa a colei che amò, dimenticando il tempo passato e presente. La madre che piange il figlio perduto pur s'acquieta, volgendo gli occhi dalla tomba a quel mite chiarore del cielo mentre allietano gli animi i monti e il mare lontano e tra la fronde spira una fresca aura, il verso virgiliano, che invade, sì dolce e rasserenante, l'animo del poeta. L'ultimo verso è traduzione del v. 45 dell'ecloga V, delle Bucoliche di Virgilio. In Dante, rifiuta gli ideali religiosi e politici che lo guidarono nella composizione e celebra la sua poesia, come un "possesso per sempre", dal momento che resiste alla storia e agli ideali stessi. In Dietro un ritratto, il divin lombardo, Ariosto, dopo aver ultimato l'Orlando Furioso, rendendosi conto in che condizioni era il mondo, non volle ossequio di "prence" e di "volgo" o amore di "teologal donna", bensì di donna reale, Alessandra Benucci. Il dualismo vita-morte percorre poi, Funere mersit acerbo, in cui il Carducci affida il figlioletto Dante all'omonimo fratello che riposa accanto al padre, Michele, "[…] su la fiorita / Collina tòsca […]". Ma esso si perpetua anche nelle quartine anacreontiche di Pianto antico, ove il ricordo, la memoria, appare ammantata di primavera, di colore e calore in quanto si tratta di un passato vitale. Ma quell'albero inaridito, metafora del poeta scosso dal dolore e privo di speranze, è il primo passo verso la degradazione, lo scolorimento, la decomposizione esistenziale e il freddo delle morte, che connota invece il presente. La lirica si ispira come ricorda Manara Valgimigli, ai versi di un carme funebre per Bione, attribuito a Mosco, poeta bucolico alessandrino del II sec. a.C.. Il tema dell'amore per Lina, emerge in Panteismo in cui il poeta non svela mai a nessuno il nome della sua amata, ma è l'eco del suo animo a dichiararsi alla natura e tutt'intorno si alza un chiacchierio tra i vari elementi e esseri finché il "gran tutto" gli mormora: "Ella t'ama". Anche lui fosco poeta ha ceduto, quindi, ad Amore, ineluttabile. Ma i frangenti amorosi non furono sempre così sereni tant'è che in Anacreontica romantica, egli escogita di seppellire Amore, in modo da liberarsi di esso. Ma come un vampiro egli si sveglia nottetempo e opprime e vessa la mente del poeta con ricordi e immagini della donna amata. Allora solo un esorcismo fatto di disprezzo e vino può spezzare questo servitium amoris. Ed è proprio la fine di quest'amore a spingerlo in Tedio invernale, a domande esistenziali avvolte da una trasognata atmosfera mitologica da aurea aetas e così il mondo classico-epico è un trionfo di luce e purezza, di bellezza e amore, di virtù e gloria, mentre l'"ora" ha tutto il sapore di una caliginosa, nebbiosa, giornata invernale. Elemento fondamentale della musa carducciana è anche la componente paesaggistica. Traversando la Maremma toscana, si caratterizza per la fusione tra il rigoglio ambientale abilmente tratteggiato e la dimensione della memoria. In essa la natura natia, forgia il carattere sdegnoso e passionale del poeta ed è anche catartica, infatti quando si addensa un atro sconforto, basta uno sguardo all'orizzonte per rasserenarsi. Anche in Idillio maremmano protagonista è la natura, fiorente e piena di colori, in cui si muove la bionda Maria. Questa realtà povera ma sincera, alletta moltissimo il "grande artiere", che ben volentieri avrebbe preferito vivere qui e non essersi sfinito dietro al verso o ad indagare l'universo. L'immagine finale del novellare, accanto al focolare, di imprese nella caccia conferisce, se ce ne fosse bisogno, un colore ancor più paesano e diventa un'attività migliore e più soddisfacente del "suonare dietro ai vigliacchi d'Italia e Trisottini". Già a partire dal quarto libro egli prefigura con le tre Primavere elleniche, la stagione delle Odi barbare, come un ritorno alla "rosea serenità dei greci" che vuol essere una reazione contro il "brutto" della realtà. Nella Eolica, c'è una spinta, che convince il poeta e la donna, ad abbandonare i rovelli della vita civile e politica, le ristrettezze e le pene del vivere quotidiano, per giungere in un mondo sereno e incontaminato dove la bellezza e la giovinezza sono imperiture, è la Grecia mai vista, ma ricreata dalla fantasia del poeta. I due spiriti ormai fusi con la nuova realtà, fuggono e dimenticano "le occidue macchiate rive”.  Il poeta nella Dorica, invita Lina a seguirlo in un viaggio nell'"isola bella", la Sicilia, anche qui mai vista ma delineata attraverso i miti di Aci e Galatea. Qui egli non cercherà gli edifici eminenti dei tiranni dove risuonò il verso di Pindaro, ma le amene e selvose valli, dove sboccia l'idillio e nasce il canto di Teocrito. Si affollano intorno alla donna amata, numi omerici e ninfe che per liberarla della mestizia la accompagnano in luoghi inaccessibili e gli svelano segreti reconditi. Ma il poeta teme che gliela possano sottrarre e quindi dichiara che sarà lui a consolarla con la sua poesia che non ha nulla da invidiare a quella degli antichi. L'ultima, l'Alessandrina, poco ellenistica, dominata com'è dal senso della morte è ispirata da una visita cimiteriale si articola in visioni sepolcrali in cui risplende il binomio amore - morte. In una fredda giornata di maggio, piovosa e ventosa, la figura dell'amata risalta languida e rabbrividente e si muove verso l'eterna primavera dell'Eliso classico. La storia è trasformata in ballata, teatralizzata, come avviene per La leggenda di Teodorico. Nata da una contaminazione di due leggende "la germanica odinica l'italiana cattolica" e concepita dopo la visione ispiratrice delle formelle del duomo di San Zeno in Verona, si snoda, sul ritmo della ballata popolare, in una caccia fatale in cui l'empio predatore si trasforma in supplice e blasfema preda, lui che aveva ucciso papa Giovanni I, Boezio e Simmaco, e finisce precipitato da un "nero caval" nei crateri di Lipari. La visione finale con l'apparizione di Boezio non è di motivazione religiosa ma serve per sottolineare una volta ancora, la superiorità del mondo latino. Le vicende storiche e politiche dei comuni dei primi secoli del anno mille attrassero molto l'interesse di Carducci e la sua penna spesso tratteggia mirabili bozzetti anche se non di rado punteggiati di quel sogno e di quella immaginazione che già altrove abbiamo visto viva e operante, del resto si tratta pur sempre di poesia. Ne Il comune rustico, si assiste ad una ricostruzione fantastica della vita di un comune del mille. Dalla prima parte di impostazione paesaggistico-temporale, si passa poi alla presentazione di gesti e sentimenti semplici, quali le distribuzioni delle terre, la difesa, la paura delle donne. La polemica mette in evidenza come questa realtà semplice ma virtuosa e virile è scomparsa e si è dissolta in un mondo di corruzione quale quello attuale. Mentre in Faida di comune, si presenta una vicenda di un dissidio locale tra Pisa e Lucca sul possesso di alcuni paesi, che era nato susseguentemente ad un estremo tentativo di mediazione, fallito per l'arroganza dei legati lucchesi. Nonostante il colore locale, la vitalità di alcune scene come quelle dell'arruolamento dei pisani, la crudezza di altre come quella finale di Tigrin Sassetta che trafigge un prigioniero per due volte, si nota una certa mancanza di approfondimento storico e tutto si gioca su una alterigia, una iubris, piuttosto aneddotica, personificata da Bonturo Dati, punita dalla tisis pisana, di cui è emblema Banduccio di Buonconte. Il grottesco domina la pur storicissima figura dell'imperatore, in La ninnananna di Carlo V, delineandolo come ricettacolo di tutti i mali che quasi per una nemesi storica gli deriverebbero dalla sua triplice stirpe. Questo sembra un po' richiamare il motivo della triplice alleanza avversata dal Carducci, conclusa dall'Italia con Prussia e Austria nel 1882, in barba alle terre "irredente". Il settimo libro, costituito dai dodici sonetti del Ça ira, è teatro della vittoria dei repubblicani francesi (1972) contro le resistenze interne dei nobili e l'invasione degli eserciti austro - prussiani che volevano restaurare la monarchia. Duplice e quindi la linea di azione dei personaggi che si muovono in questa pagina poetica in onore della Rivoluzione. Quella dei Ça ira, è una storia liviana, che vive di grandi gesti estremi e teatrali, di figure che da sole offuscano la scena come Kleber "dagli arruffati cigli / leone ruggente" e Hoche "sublime", Beaurepaire che alla resa di Verdun risponde con la vita, per non cadere in mano nemica e i titanici Domouriez e Kellermann che sconfissero gli austro-prussiani a Valmy e risente delle opere di Michelet e Blanc. Le traduzioni dal francese, dallo spagnolo, dal portoghese e soprattutto dal tedesco (Heine, Goethe, Platen) caratterizzano l'ottavo libro. Con questa attività c'è una legittimazione del grande romanticismo europeo, quello prima maniera, che al nostro poeta piacque tanto. Ma il lavoro non si ridusse a pedisseque traduzioni, ma a vere e proprie contaminazioni e libere interpretazioni che fondevano il carducciano sentire con gli spunti europei. Ne La figlia del re degli elfi, ballata popolare danese, la figlia rappresenta la forza misteriosa e malvagia della natura, l'invidia e la perfidia tese ad ostacolare e a distruggere la felicità altrui. Fonde due romanze spagnole e una portoghese per creare Il passo di Roncisvalle. Il padre Carlo Magno, scopre che nelle schiere che hanno combattuto contro i Mori, manca Beltrano, suo figlio. Lui stesso va a cercarlo per valli, pianure, strade sterrate, foreste, di giorno e di notte e con il cuore in gola e gli occhi invasi dalle lacrime. Ormai persa ogni speranza di ritrovarlo, in lui l'animo altero prevale e lo porta a maledire tutto, finanche sua moglie che gli ha dato un solo figlio. Ma quando lo ritrova ormai morto, grazie ad una indicazione, l'ira si scioglie in commozione e rampogna il cavallo per non averlo portato in salvo e curiosamente il cavallo gli risponde. Da Platen trae Il pellegrino davanti a San Just, meta coventuale, ultima dimora di Carlo V, dove si rifugiò, stanco e sconsolato, scendendo dal soglio imperiale. La protesta è viva e si rinfocola in L'Imperatore della Cina (da Heine) in cui Carducci dipinge la figura del re di Prussia, Federico Guglielmo IV, che in preda ai fumi della "zozza" (bevanda alcoloolica), vede aprirsi davanti a se un panorama splendido. La realtà è ben diversa ed è eloquente che il Carducci prenda in prestito una realtà arretrata e chiusa in se stessa come quella della Cina per delineare la situazione prussiana nel suo ritorno ad un retrivo regime aristocratico-feudale. Sempre rileggendo Heine ne I tessitori riprende la voce dei lavoratori della Bassa Slesia che nel 1872 si erano ribellati e che maledicono l'alleanza della religione, del re, della patria. Il nostro poeta alla fine degli anni settanta inizia a inserirsi, a calarsi e irreggimentarsi in quella realtà da lui molto spesso combattuta. Dopo gli antagonismi giovanili e le imprecazioni contro la borghesia ora, visti gli esiti poco felici fino ad allora raggiunti vuole tendere ad un miglioramento dall'interno.

 

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RIME E RITMI


La molteplicità degl'indirizzi e dei filoni, coltivata fino agli anni ottanta, permane manierata e cristallizzata in Rime e ritmi, raccolta composta di ventinove poesie, ultimo anelito poetico del Carducci. Il titolo, abbastanza eloquentemente, segnala l'intenzione di fondere l'esperienza "tradizionale" della rima (sonetto, canzone, ballata, rondò, stornello) che si riscontra soprattutto nelle poesie di carattere intimistico con la soluzione, se non nuova almeno rispolverata, "barbara" (odi saffiche, alcaiche, distici elegiaci) che invece prevale in quelle di respiro monumentale e celebrativo. Il ripiegamento interiore rappresenta la nota dominante degli ultimi anni, alcuni versi hanno solo il riflesso della virulenza giambica e dell'attacco moralistico come in A Scandiano dove rampogna "l'età malata" celebrando il Boiardo, altri ritraggono il poeta vate come in Piemonte. Da Ceresole reale, lo sguardo abbraccia l'intero Piemonte, scalando le Alpi, guadando fiumi, percorrendo paesi alla ricerca delle grandi memorie, di signori, principi, cittadini, soldati, patrioti, dal Medioevo al Rinascimento a Vittorio Alfieri che col suo "carme novo", chiama e desta l'Italia, a Carlo Alberto che trae la spada nella primavera della patria sconfitto ed esule vede in punto di morte le immagini di Garibaldi e la sua resistenza alle porte di Roma e morto vien scortato dai nostri eroi e martiri del Risorgimento. C'è anche la celebrazione di artisti come Nicola Pisano che seppe sintetizzare le vestigia classiche e riproporle in forme cristiane e Carlo Goldoni che dopo un excursus della sua infanzia viene ritratto in un momento caratteristico della giovinezza la fuga per mare da Rimini a Chioggia. Spunto nuovo è il filone "alpestre", che mostra la grandiosità dei paesaggi montani conditi da una buona dose di idilliaca e sognante immaginazione come appare in L'elegia del monte Spluga. La solitudine del paesaggio montuoso viene rotta dal materializzarsi di una serie di creature sovrannaturali, ninfe, fate, tra mito oreade-silvanico e saga nordica. Esse chiedono al poeta dove sia la loro sorella egli sa che ella non c'è ma si illude per un attimo di vederla proprio in quelle creature. Ma è solo un attimo perché ben presto scopre che dietro quelle presenze fantastiche in realtà si celano scoiattoli, marmotte e si trova solo in un paesaggio lunare, brullo e desolante. 

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INTERMEZZO


Concepito già nel 1874 fu rielaborato almeno fino al 1887. Il titolo è esplicativo della sua funzione di nesso fra due raccolte. Il Carducci, ricordando che per i cinquecentisti si definiva con questo termine un «breve divertimento di canzonette e balletti figurati, dato tra l'uno atto e l'altro delle rappresentazioni drammatiche» avverte che anche il suo poemetto doveva segnare il passaggio dai Giambi ed epodi alle Rime Nuove e alle Odi barbare. Esso si muove in bilico tra la concitazione polemica e il raccoglimento malinconico e nostalgico animato sia dal fastidio e disprezzo del tempo presente, dal sarcasmo contro studi di contemporanei, falsi idealisti e meschini poeti del cuore sia dalla memoria tenera del proprio lontano passato e della terra nostra, espressione di una natura vergine e vigorosa, e della carica catartica che ispirò i poeti classici. Se nella prima parte c'è ancora il risentimento verso gli ultimi romantici, nella seconda abbiamo una atmosfera serafica e catartica non lontana da Canto dell'amore e dalla poetica della Barbare. Il metro e di strofe tetrastiche di endecasillabi e settenari alternati. 

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INNO A SATANA


Scritto nel settembre del 1863, l'inno a Satana fu pubblicato da Carducci, con lo pseudonimo di Enotrio Romano (usato qui la prima volta), a Pistoia, presso la Societa tipografica pistoiese, Bongiovanni e C., nel novembre1865. Poi fu ripubblicato nel 1867 con il testo completo (nella princeps mancava la terzultima strofa). Fu riproposto l' 8 dicembre 1969, su "Il Popolo" di Bologna. Il metro è in quartine (50) composte da quinari sdruccioli e piani alternati.Il leone maremmano cosi lo definì in una prefazione ai Levia gravia curata nel 1881, per lo Zanichelli: «Non mai chitarronata(salvo cinque o sei strofe) mi uscì dalle mani tanto volgare».Quest'inno è stato scritto di getto ed in una sola notte come ricorderà in un epistola a Quirico Filopanti: «L'Inno a Satana è lirico almeno in questo, che è l'espressione subitanea, il getto, direi, di sentimenti tutt'affatto individuali, come miruppe dal cuore, proprio dal cuore, in una notte di settembre del1863». Il Carducci spiega di aver compreso sotto il nome diSatana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli asceti e i preti con la formula: "Vade retroSatana". L'Inno incarna quell'atteggiamento che potremmo definire giacobino ante litteram che già in nuce nel Carducci, viene esacerbato dalla lettura di autori quali Michelet, Quinet, Blanc, Hugo, Barbier. Certamente ciò che più ai suoi occhi era sinonimo di oppressione, di dispotismo, di oscurantismo e sarà rappresentato dal potere temporale dei papi e l'emblema di tutto ciò era il Sillabo di Pio IX. Egli ebbe più volte a dire infatti, che combatteva non il cristianesimo ma la Chiesa come entità storica nemica del progresso, timorosa della libertà di pensiero. Infondo, a guardar bene, il suo Satana cos'è se non il trionfo del principio stesso dell'essere, unità di materia e spirito di ragione e senso. Questa entità è stata guida dei riformatori protestanti, da Wicleff a Huss a Lutero ma anche diGirolamo Savonarola contro papa Alessandro VI. Non mancano poi particolari spunti di riflessione come la teoria degli asceti.Satana per loro è la bellezza, l'amore, il benessere, la felicità:«Si, ho inneggiato a queste due divinità dell'anima mia, dell'anima tua e di tutte le anime generose e buone; a queste due divinità che il solitario e macerante e incivile ascetismo abomina sotto il nome di carne e di mondo, che la teocrazia scomunica sotto il nome di Satana». Questo trionfo di un afflato vitalistico e saltellante si trasforma nell'immagine finale della vaporiera che sbuffa, simbolo dei tempi moderni.